La NYFW per il prossimo a/i 2017 ha portato in passerella una denuncia politica e sociale come, a New York, non si vedeva da qualche tempo. Il calendario, sempre più impoverito di nomi per i quali la stampa internazionale avverta l’urgenza di spostarsi oltreoceano, ha lasciato spazio alla forza vibrante di alcune voci autorevoli, che da sole hanno saputo raccontare la società americana, hic et nunc (qui ed ora). La vittoria di Trump alle passate elezioni presidenziali ha scosso il sistema sociale americano e i designer hanno saputo interpretare una certa resistenza attiva al contemporaneo.

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Vero alfiere di questa NYFW è stato il debutto di Raf Simons da Calvin Klein. La storica casa di moda, quintessenza dello sportswear all’americana, scrive un nuovo capitolo della sua storia. Calvin Klein è così sfacciatamente americano che l’arrivo del designer belga, certamente molto noto ai fashion insiders, ma molto meno al grande pubblico, provoca una frattura non di poco conto. Riscrivere la storia di un brand non è affar semplice, tanto meno se l’obiettivo è quello di riportare il marchio ad una crescita organica, dei fatturati. Raf Simons ha assunto la direzione creativa di tutto l’universo Ck provando a dettare le proprie regole: cambiando il logo, l’immagine, il racconto, le campagne pubblicitarie. Scandita dalle note programmatiche di This is not America di David Bowie, la passerella è una scatola vuota, candida, una pagina bianca riempita da alcuni orpelli che suonano come pugni nello stomaco. Sono le installazioni volute da Raf e create da Sterling Ruby, artista contemporaneo che con lo stilista ha collaborato diverse volte. I drappi e le sculture in tessuto appesi al soffitto sono le premesse che gli abiti hanno la capacità di rendere oggetti del vivere quotidiano. Una pelliccia dorata e gli abiti di piume avvolti nel vinile trasparente, il business men dal completo grigio, sdrucito ma impertinente, indossato senza distinzione – di forma, colore, allacciatura – da uomini e donne. Raf Simons crea un ossimoro: racconta la sua fascinazione per gli Stati Uniti, traducendo in collezione i cowboy gioiosi, gli schizofrenici di Wall Street, la divisa spersonalizzante delle vergini suicide (“Il giardino delle…” film di Sofia Coppola, nel front row ndr), la purezza del minimalismo che annulla le differenze per esaltare la diversità, pagando un tributo evidente alle collezioni di Helmut Lang tra le fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000. Così Raf Simons prende il testimone, fa suo un marchio e lo riconfigura. Non è moda per il gusto di fare abiti, è voglia di creare abiti per fare moda e cultura. This is not America: che rispetto a quello in cui la politica la vorrebbe trasformare, l’America possa essere per lunghe stagioni quello che per il prossimo inverno ci ha suggerito Calvin Klein.

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Ultima stagione alla NYFW per Proenza Schouler, che dal prossimo settembre trasferiranno le loro presentazioni a Parigi. Una scelta dettata dal desiderio di dare respiro ad un brand che ha saputo crescere in modo brillante eppure senza toccare veramente le corde dei consumatori globali. Una di quelle defezioni che si faranno sentire senza se e senza ma. Per questo arrivederci il duo di designer fondatori del marchio Jack McCollough e Lazaro Hernandez ha presentato una collezione sovversiva. Guarda alla strada, alla città da cui nasce la rivolta, a quelle strade lungo le quali qualche mese fa giovani indignati hanno portato in scena la loro protesta. “Volevamo rappresentare i cittadini di New York che escono di casa e dicono qualcosa di significativo” con queste parole i designers spiegano quello che gli abiti raccontano. Si tratta di una proposta per il prossimo autunno-inverno che si offre alla resistenza: gli abiti in vinile nero assomigliano alla plastica dei sacchi neri, così la pelle dei giacconi, che si fa lucente in maniera quasi irreale, il pizzo si ispessisce e diventa materico, spalmato di lattice. Perfino le calzature, sandali allacciati alla caviglia, trasfigurano come fossero bendaggi di ferite. La strada chiama, la società insorge, la politica provoca e Proenza Schouler rispondono. Con una collezione dove il cut-out, che ritorna con insistenza, mette a nudo impegno e debolezze. Fragilità e combattimento.

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Più letterale e didascalica è la collezione di Alexander Wang; il designer di origini taiwanesi sente l’urgenza di riscrivere se stesso. “No after-party” recita l’invito allo show. La recente deriva politica americana sembra aver gettato un’ombra sul designer protagonista dei party più attesi della NYFW. L’urgenza è quella di farsi serio, a tratti duro e sferzante, di misurarsi con il contemporaneo come fosse una trincea. A scendere in passerella è la celebrazione della forza ancestrale della donna, che è poi il vero segno distintivo a cui lo stilista ci ha abituato. La stessa donna che qualche stagione fa avrebbe celebrato la propria femminilità come baluardo di auto-affermazione oggi per metonimia incarna il genere umano tutto. E diventa una combattente, dominatrice, corazzata di nero assoluto, borchie e maglia a rete. Anche quando si concede il lusso della sera, gli abiti sono bordati di piccole borchie, il corpo modellato da jumpsuits e leggings di una moderna Valentina. É tutto al posto giusto, la donna neo-punk è dipinta con magistrale fedeltà. Tanto didascalica da mancare di identità. Tuttavia è proprio questa la forza di questa collezione; se in nome di un’identità presunta il rischio è quello di appiattire la diversità, sarà Alexander Wang a rispondere, a mettersi in trincea.

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Come ogni stagione spetta a Marc Jacobs la chiusura della NYFW. Lo stilista per l’a/i 2017 celebra, neanche a dirlo, le strade di New York che sono emblema a tutto tondo dell’inclusività. Chiama in causa la cultura hip-hop, quella autentica, che negli anni ’70 ha fatto breccia nel cuore del Bronx, quartiere multiculturale di New York.

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Attraverso un casting di modelle che è il più emozionante tra quelli visti di recente, Marc Jacobs ripercorre con fedeltà l’estetica di un movimento che ha fatto da ponte tra la cultura outsider afro-americana e il mainstream. Paradossale l’assenza di musica, per uno show che celebra un momento storico in cui fu proprio la musica a far collidere culture che altrimenti non avrebbero saputo dialogare. Ci pensano gli abiti: il montone dai volumi sbagliati, il velluto a coste, il check polveroso, gli stivali alti. Sono moderni eppure evocano un block party qualunque, dagli anni ’70 all’altro ieri. Puntualizzano le creazioni di Stephen Jones che ha confezionato per lo show dei copricapi così sfacciatamente retrò da essere desiderabili. Respect è il titolo attribuito alla collezione per l’a/i 2017 ed è proprio in questo che la collezione si fa sociale. La storia ha dimostrato che tra le strade della città solo il mutuo rispetto, l’accettazione, l’amore per la diversità, l’inclusività, la celebrazione dell’altro depongono per la sopravvivenza. Diversamente la realtà sociale non ha spazio, nè tempo, nè luogo per vivere.

Pushed by Martino Carrera

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